Nel silenzio surreale del paesaggio invernale, il borgo di Sant’Agata dei Goti troneggia sulla sua millenaria roccia a strapiombo sul fiume. Le vene del tufo, rughe sul volto di una bellissima donna anziana, ci raccontano l’anima del luogo. Si sono solidificate nel contatto tra il gas della roccia e l’aria. Seguendole verso l’alto, toccano nel loro primo strato la base delle case; verso il basso portano alle fondamenta della rocca, uno strato di pomici frutto di un’antica eruzione vulcanica. E, ancora più giù, fino alle radici più profonde: il piano terminale della rocca, al di sotto del livello dell’acqua.

Scendiamo fino al limite estremo, fino al fiume. Da qui, un solo colpo d’occhio basta per comprendere perché i Romani, quando videro questa rocca tufacea decisero che era perfetta per costruirci il castrum. La scalinata è ripida e non sempre accessibile nei suoi cinquanta metri di dislivello, ma dei lavori in corso la stanno migliorando.

Qui, alla base della rocca, si appostavano i nemici nel tentativo di espugnare Sant’Agata. Guadavano l’acqua di nascosto nel buio della notte e restavano per mesi e mesi a scavare cunicoli nel tufo, nascosti tra la vegetazione, aiutati da un traditore che scavava dall’interno del paese.  I cunicoli venivano studiati in corrispondenza delle cisterne d’acqua o dei depositi di derrate alimentari: svuotarle per assetare e affamare la città era l’unico modo per fare arrendere gli abitanti (Sant’Agata. Pensare alla carenza di cibo oggi a Sant’Agata fa sorridere: l’enogastronomia è diventata il motore che porta in paese migliaia di turisti. Gli abitanti hanno organizzato una rete di bed and breakfast e di agriturismi dove ogni ben di Dio viene servito con abbondanza ed accuratezza. “E’nel connubio storia – sapori che Sant’Agata si sta rilanciando verso il futuro”, racconta a Repubblica Viaggi Marco Razzano, l’agronomo che all’Ape Regina riesce a produrre centinaia di chili di miele di tutte le qualità ed a farne anche prodotti per la cura del corpo. Nella sua struttura tutto è naturale, persino i lampadari dell’agriturismo, fatti da suo padre con il legno di kiwi.
Scoprire Sant’Agata dei Goti, bandiera arancione del Touring Club Italiano, è una vera passeggiata nel Medioevo, nel suo tipico andamento “a fuso”, con le due strade principali, via Aniello e via Martorano, lungo il perimetro (derivano dal castrum) e la spina di pesce centrale tracciata in seguito nel tempo. Tra le due vie ci sono le case gentilizie con all’interno gli orti che permettevano alle famiglie di sopravvivere agli anni di assedio. Cosi come le vediamo ora, attaccate una all’altra in cima alla roccia di tufo, nacquero nel tardo Impero: con la riforma delle strutture difensive, si iniziarono a costruire case in aderenza, in modo da alzare la quota della rocca e renderla ancora più inavvicinabile. Ecco perché hanno tutte un muro in comune (cosa che crea anche problemi burocratici in caso di lavori di ristrutturazione). Certo, all’epoca le abitazioni erano più nascoste di ora e non c’erano i balconcini e i terrazzi che vediamo adesso pieni di fiori.

Nel cuore del tufo, alla base del borgo, i cunicoli un tempo usati come passaggi segreti (purtroppo non sono visitabili dato che sin dal Settecento furono utilizzati per metterci materiale di riporto) portano alle cave. In alcune, come la cava de “L’Antico Borgo”,  è possibile cenare, in un’atmosfera davvero magica. Altre sono delle cantine (circa 160) dove il vino viene cullato a temperatura naturale, nelle profondità della terra. La più storica è gestita da Paola Mustilli: la sua famiglia dal 1700 produce vino ed ha dato i natali alla famosa falanghina del Sannio. “Negli anni Settanta – racconta – mio padre decise di fare un monitoraggio dei vigneti della provincia di Benevento che da sola già produce il 50% delle uve di tutta la Campania. A quell’epoca c’erano solo due cantine in tutta la regione che imbottigliavano vini autoctoni. Con mia madre e altri pionieri, scoprì diciotto diverse varietà di uve sconosciute ai più. Tra questi c’era la falanghina che veniva però usata per migliorare i vini dei castelli romani. Mio padre fu il primo a riconoscerne le qualità, ad imbottigliarla e a produrla. Oggi è il vino campano più diffuso e conosciuto al mondo”.

Ma perché il paese si chiama Sant’Agata dei Goti?  La risposta è, ancora una volta, scritta nelle pietre della città.  In epoca normanna, arrivò in Campania la famiglia Drengot, caduta in disgrazia in Normandia dopo che il primogenito, per difendere una donna, aveva ucciso una persona vicina al duca Riccardo II di Normandia. Per riconquistare posizione sociale, i Drengot si misero dunque al servizio dell’imperatore, come mercenari. E cosi Rainulfo Drengot ricevette in dono la rocca di Sant’Agata. Subito conto che poteva trasformarla in fortezza fece cosi costruire i contrafforti che vediamo ancora oggi (quello che oggi è il parcheggio delle fosse era la cava utilizzata per costruirli).  Come si arriva da Sant’Agata Drengot a Sant’Agata de Got e poi a Sant’Agata Dei Goti è facilmente intuibile dato che i Normanni facevano più uso dell’orale che dello scritto.

Anna Maria De Luca

 (Pubblicato su www.repubblica.it)

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