Un viaggio tra parole e cucina sulle tracce di Alessandro Castro

C’è un posto a Barcellona, in quella città dove il Mediterraneo batte contro le Ramblas come un cuore antico, dove da trent’anni un italiano custodisce qualcosa che va oltre la semplice cucina. Si chiama Quinto Cuarta, e il suo custode è Alessandro Castro, un uomo che ha fatto della gastronomia non un mestiere, ma una filosofia di vita.

L’ho immaginato mentre percorrevo mentalmente le sue tracce: da Barcellona a Montecatini, dove ora si appresta ad arrivare per il festival Food and Book di Sergio Auricchio, evento dove le parole si mescolano ai sapori come in un’antica ricetta perduta. Perché Castro è questo: un tessitore di connessioni, un ponte tra mondi che solo apparentemente sono distanti.

Console della gastronomia italiana in Europa. Il titolo, conferitogli dall’Accademia Italiana di Gastronomia e Gastrosofia di Siena una quindicina di anni fa, suona quasi anacronistico in questi tempi frenetici. Console: come gli antichi rappresentanti di Roma nelle terre lontane. E forse è proprio questo che fa Castro, da tre decenni nella capitale catalana: rappresenta, custodisce, trasmette. Non con la retorica del patriottismo culinario, ma con quella pazienza antica che è propria di chi sa che la cultura passa attraverso i gesti, i sapori, le parole.

È un Paladino dei vini di Sicilia, appartiene a diverse confraternite dei vini di Spagna – terre che ha imparato a far dialogare come lingue diverse dello stesso poema. Perché Castro non è solo un ristoratore. È un filologo, uno che scava nelle parole come altri scavano nella terra alla ricerca di tuberi preziosi. La filologia italiana, quella disciplina che stona in un curriculum gastronomico, diventa nelle sue mani il grimaldello per aprire le porte della memoria, per capire che “pasta” e “pasto” vengono dalla stessa radice, che ogni piatto ha una storia che precede la ricetta.

“Parole condite” si chiama la sua rubrica nei Taccuini Gastrosofici. Un titolo che è già un manifesto: le parole hanno bisogno di condimento, come la vita ha bisogno di sapore. E Castro condisce, in radio, in televisione, nelle videconferenze che lo portano fino in Brasile insieme ad Alex Revelli, dove insegna – perché sì, insegna, sempre – che cucinare è un atto di pensiero prima ancora che di mani.

Pensavo, mentre scrivevo di lui, a cosa significa essere console in un’epoca dove il food è immediato, tutto è veloce. Castro è un anacronismo necessario, uno di quegli uomini che ricordano che la cucina è lentezza, attenzione, rispetto. Che ogni ingrediente ha una storia, ogni piatto una geografia, ogni sapore una filosofia.

Da trent’anni a Barcellona. Una vita. E forse, in fondo, la storia di Castro è anche la storia di tutti noi che abbiamo lasciato un posto per trovarne un altro, portando con noi non le valigie, ma i sapori, le parole, i gesti che ci rendono quello che siamo.

A Montecatini, al festival Food and Book, arriverà portando questo: la consapevolezza che nutrire non è solo riempire lo stomaco, ma alimentare l’anima. E che un console, in fondo, è uno che non dimentica da dove viene, anche mentre costruisce dove sta andando.

CONDIVIDI
Articolo precedenteIl morto presunto
Articolo successivoSguardi di Natale

COMMENTA