Pernambuco, foto di Rafa Medeiros

Viaggiare, prima ancora che risiedere, è uno degli archetipi della condizione umana. Il movimento è all’origine stessa di molte delle nostre percezioni culturali, sentimentali e morali. John Bowlby, uno psicanalista che ha studiato le unioni parentali, ha notato che i bambini smettano di piangere quando si sentono dondolati a causa del movimento. Si tratta di una memoria ancestrale che ci riporta a quando eravamo trasportati in fardelli sulle spalle dai nostri antenati, in viaggio sui sentieri preistorici. Anche un mezzo di trasporto quotidiano come l’automobile tende a riprodurre sensazioni, emozioni e impressioni tipiche del movimento e della cura, memorie remote di quei viaggi primordiali.

La civiltà umana nasce nomade, e l’uomo stesso è una specie migratoria. Attraverso le migrazioni  dall’Africa verso l’Europa e l’Asia gli ominidi si sono evoluti fino all’Homo Sapiens. L’Homo Erectus, con l’antenato Ergaster, è considerato il primo viaggiatore-migrante dell’umanità: dalle savane africane oltre un milione di anni fa, vagò sino ad arrivare in Asia orientale. La reputazione del viaggio come ricerca faticosa di nuovi inizi risale alle peregrinazioni dei nostri progenitori biblici. Ad Adamo ed Eva, scacciati dall’Eden dopo aver disubbidito e peccato, per punizione viene ingiunto di viaggiare sulla terra alla ricerca di un possibile “altrove”. Forse è per questo che il viaggio, come l’esilio e le migrazioni forzate, rappresenta nello stesso tempo un castigo, una cura, una purificazione.

 Nel nostro tempo della mobilità globale e dei viaggi per tutti vale il paradosso antropologico rilevato da John Urry: “nella maggior parte del tempo siamo turisti, che ci piaccia o meno”. E come ogni estate è tempo di vacanze, di viaggi e di turismo. “Il cambiar clima guarisce molti mali”, si diceva una volta. Un tempo partire per viaggi lunghi e avventurosi era esperienza distintiva di una nobile inquietudine riservata solo a pochi eletti. Oggi nell’economia dei consumi l’esperienza del viaggio è facilitata e offerta a tutti. Anche un individuo medio con un reddito limitato, può decidere di vivere un fine settimana come un nobile o un ricco viaggiatore dell’800 concedendosi alberghi e altri lussi in località esotiche e rinomate. Il turismo ha creato una geografia dell’illusione in cui gli itinerari confezionati dai tour operator facilitando il mercato diventano espressione di comportamenti remissivi e superficiali.

L’apporto culturale del viaggio si traduce così nell’esaltazione di un feticismo degli oggetti-ricordo e dell’esotico patinato, dei video da esibire al ritorno come prova dell’essere stati là. Ma viaggiare ancora oggi non significa solo vacanza, è molte altre cose. Per l’individuo massificato è un residuo di libertà, uno spazio che può mutare il punto di vista sul mondo e la propria vita. Viaggiare è un’opportunità per cambiare. Molti sono in viaggio per migrare, per far ripartire la vita altrove, con la speranza di sfuggire all’ingiustizia e alle persecuzioni, o più semplicemente per trovare lavoro per sé e la famiglia lontano dal proprio paese. Si può viaggiare per religione e per fede, come accadeva già nell’antichità con le visite ai santuari pagani e agli oracoli nei pellegrinaggi anticipatori del turismo religioso di massa, o come avviene nei sempre più affollati happening odierni della devozione globalizzata. Lourdes, Fatima, La Mecca, lo stesso Giubileo sono pratiche del viaggio religioso contemporaneo dove si confondono misticismo, svago e penitenza. Ma si può viaggiare ancora oggi per fuga, per ribellione, alla ricerca di una propria idea di libertà, spinti dalla reazione alle convenzioni sociali o dalle pratiche consolatorie del consumismo.

Ci sono viaggiatori che nonostante le raccomandazioni di governi e organizzazioni, intraprendono per diporto viaggi estremi o imprese sportive al limite, in luoghi affatto sconsigliati per il turismo, in situazioni di rischio terroristico, in aree di conflitto, in presenza di predoni o di epidemie in corso. Sono coloro che viaggiano per mettersi alla prova, per sfidare solitariamente la sorte, per provare l’ebbrezza del rischio; perché fatalmente “partire è un po’ morire”. Si può viaggiare infine per educarsi, per soddisfare un profondo e disinteressato bisogno di conoscenza, come Friedrich von Humboldt, l’esploratore e naturalista tedesco che insisteva sull’importanza del contatto diretto con le diversità umane e le forme policrome della natura. Ma ogni viaggio, anche il più scontato e meno avventuroso, comporta sempre l’esposizione all’imprevisto, la misura di un rischio.

“Travel” significa anche travaglio, prova, difficoltà. Nelle società complesse la trasformazione dell’individuo sociale nel viaggio, il diventare qualcun altro per mezzo del transito temporaneo verso altri luoghi e altre culture, non sono più stereotipi e miti letterari, ma ormai possibilità e fatti comuni all’esperienza di moltitudini di uomini e donne. L’Organizzazione Mondiale per il Turismo stima il fenomeno in costante crescita economica e sociale. Quest’anno saranno oltre 700 milioni i viaggiatori in movimento per turismo in tutto il mondo. Il turismo di massa ha ragioni e spiegazioni complesse di carattere antropologico, ancora insufficienti. Il turismo è un pratica sociale sempre più discutibile e pervasiva, piena di ambiguità e di contraddizioni.

L’idea che viaggiare stimoli la conoscenza è antichissima. Gilgamesh, l’eroe indiano della Bhagavad Ghita, viaggiando conobbe i paesi del mondo, divenne saggio e svelò misteri inspiegabili. Fin dall’inizio della letteratura, si pensò che il viaggio accrescesse le conoscenze del viaggiatore attraverso l’osservazione e l’elaborazione delle differenze tra gli uomini e le culture, procurando una trasformazione qualitativa del suo stato intellettuale e morale. Strabone rubrica coloro che cercano il senso della vita tra quelli che hanno il vizio di “vagare per le montagne” e ripete un’idea che era proverbiale già nel primo secolo a.C: “Gli eroi più saggi furono quelli che visitarono molti luoghi e vagarono per il mondo: i poeti onorano chi ha visto le città e conosciuto la mente degli uomini”.

 I miti arcaici sono fondati sull’eroe nomade, come Gilgamesh, Ercole, o Ulisse, che viaggiò fino alla fine del mondo conosciuto. Poi vennero i grandi viaggiatori recensori della ricchezza dei costumi e della varietà delle culture umane, come Erodoto, Senofonte o l’arabo Ibn-Batuta. La scienza moderna sorge quando gli europei diventano viaggiatori coscienti di sé all’interno e all’esterno dei confini geografici del proprio mondo e della propria civiltà, in un confronto di esperienze in cui popoli, civiltà, specie animali e vegetali, paesaggi e natura diventano oggetto di conoscenze approfondite. Il viaggiatore europeo non raccontava più cose favolose né seminava pregiudizi, ma correggeva errori, scopriva verità.

Nel ‘900 l’immagine del viaggiatore straniero ha acquistato anche la connotazione antropologica dell’“estraneo”. Questa definizione che oggi si confà paradossalmente alle pratiche del turismo di massa contiene però ancora un’eco degli antichi, quando definivano il viaggiatore come un “filosofo”, e anche una traccia di quelle idee borghesi di civiltà che all’inizio dell’età moderna attribuivano una particolare dignità al viaggiatore straniero quando questi si comportava come un osservatore acuto e un descrittore del mondo privo di pregiudizi. Anche l’ “estraneo” degradato a semplice turista, se con la mobilità e la distanza si trasforma in viaggiatore consapevole e va oltre i vincoli della situazione locale, può ancora cogliere le qualità delle culture, la generalità dei valori e dei rapporti umani.

Da questo confronto possono scaturire non solo conflitti ma dialogo e conoscenza reciproca. Si può ancora viaggiare per raccontare, come avvenne all’epoca dei grandi esploratori che affascinarono i loro lettori con storie mirabolanti del nuovo mondo e delle scoperte etnografiche. Il viaggiatore osserva e registra. Egli può descrivere la realtà che considera e conoscere gli altri in modo maggiore o minore a seconda l’acutezza delle sue vedute, la sua consapevolezza e il suo grado di cultura. Le caratteristiche del vero viaggiatore sono perciò la curiosità e la disposizione alla libertà e al confronto. Poi vengono, ricorda Georg Simmel, l’oggettività, la generalità e l’astrazione. Oggi, scrivendo o per immagini, è una possibilità di tutti i viaggiatori quella di narrare esperienze personali, raccontare emozioni, svelare se stessi attraverso ciò che il viaggio ha risvegliato. Ma sempre più spesso il consumo di viaggi nasce contraffatto, inseguendo mode e mete superimposte dalla pubblicità, dal mercato e dalla comunicazione.

Il viaggio di consumo è spesso un viaggio inautentico, falsificato; un “tutto compreso” che include i feticci e le pratiche più deteriori del collezionismo turistico: un certo numero di mete e di spostamenti esibiti, souvenir sempre più kitch, video e album di viaggio, esperienze sessuali e trasgressioni facili consumate esentando la coscienza, mistificata dal fatto che “là” vigano leggi e valori morali inferiori a quelli del proprio paese. Questo turismo crea squilibri e dipendenze, impoverisce e brutalizza. Molti paesi dell’Asia, dell’Oceania, dell’Africa e del Sud America, senza parlare poi degli stravolgimenti e delle brutture che il turismo ha creato anche a casa nostra, subiscono oggi immensi danni da parte dell’industria mondiale del turismo che inquina e modifica senza scampo ambienti, tradizioni e culture umane irripetibili in funzione del consumo effimero delle vacanze e del divertimento di massa.

In un mondo in cui grandi distanze sono ormai coperte da mezzi sempre più veloci, diventa sempre più ossessiva la ricerca di nuove destinazioni “esotiche”, con l’offerta standardizzata dell’“impossibile” e del difforme a portata dell’uomo comune. Così il turismo di massa sta cancellando la natura, i paesaggi, le diversità, i misteri e i miti dell’altrove rendendo ovunque la vita monotona, pre-confezionata e ripetitiva. I luoghi naturali e i gli ambienti non turistizzati non esistono quasi più o sono trasformati in spazi inverosimili. Esistono montagne con il semaforo per gli scalatori; si fa la coda per accamparsi con i suv nel deserto del Sahara sotto le rocce del Tassili; i rinoceronti del parco di Ngoro-Ngoro girano per la savana con il nome in vista su una targhetta; i guerrieri Masai posano per cineprese in t-shirt griffate bevendo lattine di coca-cola.

Sempre di più il turismo depaupera e falsifica sia la vita di chi viaggia che quella di chi risiede. Il turismo mimetizza la realtà, la nasconde tra le pieghe di un viaggio nell’indifferenziato e nel finto, come in un enorme parco divertimenti. Viaggiare non comporta più un allontanamento dai riti e dalle convenienze sociali, né proietta più l’individuo in contesti di mutamento e di crisi, nel confronto aperto tra le differenze e le culture. Viaggiare piuttosto che conoscere e conoscersi nella diversità, sempre più significa “de-realizzarsi”, arrendersi allo spettacolo immiserito e grottesco di un mondo senza più bellezza e “senza finalità”, come a ha scritto di recente Marc Augè.

Oramai anche le grandi paure ataviche che accompagnavano i rischi del viaggiatore si sono trasformate in “eventi” metabolizzati dal mercato, come lo tsunami e il terrorismo, o in disguidi tecnici e logistici, come la paura di perdere l’aereo o l’allarme ciclico per i costi di alberghi e servizi. Viaggiare sì, bisognerebbe ricominciare a viaggiare, ma in un altro modo. Ricordandoci sempre che il mondo non è un parco di divertimenti e che sulla terra non c’è mai stata né un’umanità né un luogo creato per uso e consumo del  nostro turismo e delle nostre vacanze.

                                                                            Mauro F. Minervino