Il titolo è volutamente provocatorio. Paola Strocchio, qual è stato l’episodio o la presa di coscienza che l’ha spinta a identificare il suo stato d’animo con l’etichetta “Figlia di Merda” (FDM) e a capire che era un sentimento diffuso?
Mi sono sempre sentita piuttosto inadatta, come se in qualche modo non fossi “mai abbastanza”. La consapevolezza vera e propria è arrivata per caso, un po’ di anni fa, mentre chiacchieravo al telefono con una mia amica, Valeria. Per provare a tirarmi su il morale mi ha detto più o meno così: “Rassegnati, Paoletta. Sei una figlia di merda. Lo siamo un po’ tutte, in fondo”. E così ho aggiunto un tassello alla mia identità. Lei scherzava, ovviamente, ma in quell’istante ho capito che il cappello di FDM mi calzava a pennello.

Sull’auto-ironia come strumento. Il libro bilancia serietà e auto-ironia. Quanto è stata fondamentale l’ironia per affrontare un tema così intimo e doloroso come la costante ricerca di approvazione genitoriale, e quanto l’ha aiutata a “de-drammatizzare” la sua stessa esperienza?
L’ironia, soprattutto quella che declino nei miei confronti, è parte di me. È l’arma che uso per affrontare le giornate, anche quelle più buie. Di fatto non toglie niente alla pesantezza di certe situazioni, ma mi aiuta a riderci sopra, e a pensare che se alla fine ci scappa un sorriso, anche se non una risata, allora non è tutto da buttare. È stato così anche in questo caso.
Sulla sindrome dell’impostore. Crede che la “sindrome della Figlia di Merda” sia una particolare declinazione femminile della più nota sindrome dell’impostore, dove l'”impostura” non è nel lavoro ma nel ruolo di figlia “perfetta”?
Mentre scrivevo il libro non mi è mai venuta in mente la sindrome dell’impostore, altrimenti avrei dedicato almeno un capitolo al tema. Sì, la sindrome della FDM è una declinazione al femminile. Non ho evidenze scientifiche, ma credo lo sia, o per lo meno lo è per me. Non ci si sente mai all’altezza, e quando le cose filano incredibilmente lisce ci si domanda se in arrivo c’è una nuova tempesta, perché ci si convince che non si merita fino in fondo l’approvazione dei propri genitori.

Sulla liberazione dal giudizio. Qual è stato il momento (o la decisione) nella sua vita in cui ha sentito di aver fatto il primo passo concreto per “lasciare la poltrona da presidente del club delle FDM” e smettere di elemosinare la benedizione di mamma e papà?
Ufficialmente ho lasciato quella poltrona, ma non credo di essere ancora fuori da quello che a volte mi pare un girone dantesco. È brutto vivere con la sensazione di disattendere perennemente le aspettative di chi ami tanto, in questo caso i miei genitori. Diciamo che la mia separazione, che risale ormai a parecchi anni fa, ha dato uno scossone non da poco. Sapevo che li avrei fatti soffrire molto, anche se loro conoscevano le ragioni che mi muovevano e le condividevano pure, ma ero talmente stanca di stare male che ho pensato che forse era arrivato il momento di pensare un pochino a me.
Sulle aspettative inespresse. Spesso le aspettative genitoriali sono implicite o percepite. Secondo la sua esperienza, quanto è più dannosa un’aspettativa mai apertamente dichiarata rispetto a un obiettivo esplicitamente imposto?

Parlo ovviamente basandomi soltanto sulla mia esperienza personale. Se mi viene imposto un obiettivo in maniera esplicita, in maniera altrettanto esplicita posso trovare le forze di dire “no”, “non ci sto”. “Non è quello che voglio io”. Se invece l’aspettativa non è mai dichiarata apertamente, allora è più difficile contrastarla. I non detti fanno male anche in questo caso. E il senso di inadeguatezza lievita, inevitabilmente.
Sulla differenza generazionale. Nel suo “Manuale di sopravvivenza,” c’è un capitolo dedicato ai genitori di oggi e di ieri? Ritiene che la pressione sul ruolo di “figlia” sia cambiata per le generazioni più giovani, magari sostituita da nuove forme di controllo sociale (ad esempio, tramite i social media)?
Non c’è un capitolo che mette a confronto le mamme e i papà di oggi e quelli di un tempo. Diciamo che rifletto sul mio modo di essere genitore, che è decisamente diverso dal modello genitoriale con cui sono cresciuta io. Questo non significa che il mio sia migliore, che sia chiaro. Anzi. Credo che le aspettative siano più o meno le stesse, anche se contestualizzate in un tempo diverso rispetto a quello in cui sono stata ragazza io. I social – ammesso e non concesso che i figli non blocchino gli account dei genitori – permettono forse più controllo, almeno sulla carta, ma non sempre il controllo è una declinazione delle aspettative.
Sulla reciprocità del perdono. Se il libro è un manuale di sopravvivenza per le figlie, crede che i genitori, a loro volta, debbano “sopravvivere” alle figlie adulte? C’è spazio per un “Manuale di sopravvivenza per Genitori di Figlie di Merda”?
Mi chiedo spesso come ci si senta a essere i miei genitori, ma la risposta è inevitabilmente viziata, perché la do io. Anche loro hanno il diritto di sopravvivere alle figlie adulte, soprattutto se i genitori di figlie di merda non siano davvero genitori di merda. Non so se i miei genitori mi abbiano perdonato per avere disatteso le loro aspettative. Appartengono a una generazione molto pudica nell’affrontare tematiche squisitamente emotive e soprattutto intime. So che mi vogliono molto bene, e questo – il più delle volte – mi basta.
Sulle “grandi decisioni”. Il testo tocca la difficoltà di prendere decisioni senza l’approvazione genitoriale. Qual è, secondo lei, la decisione “non approvata” più comune che le figlie adulte faticano a gestire (cambiare lavoro, partner, luogo di residenza)?
Credo dipenda molto dai valori con cui sono cresciute e con cui si sono misurate, consapevolmente o meno. Io, per esempio, sono cresciuta in una famiglia molto unita e molto stabile, e sicuramente la “delusione” più grande, per loro, è che io, parecchi anni fa, abbia deciso di chiudere un matrimonio che stava in piedi solo per finta. Non tanto per una questione di forma o di apparenza, ma perché loro vedevano e vedono nel matrimonio un patto per la vita, un sostegno reciproco che deve andare avanti sempre e comunque. Avevano paura che io mi ritrovassi sola, che non ci fosse nessuno a occuparsi di me. Alla fine, paradossalmente, a modo loro volevano proteggermi da quella che loro vedono come una giungla in cui ai loro occhi sembravo troppo debole per sopravvivere.

Sul rischio dell’universalizzazione. Il libro è pieno di aneddoti, suoi, delle sue amiche e anche di fantasia. Come ha gestito l’equilibrio tra la narrazione personale e il tentativo di rendere il messaggio universale, evitando il rischio di generalizzare eccessivamente dinamiche familiari uniche?
Ogni dinamica familiare è a sé, giustamente, così come lo è ogni storia, e il rischio di generalizzare è concreto. Spero di non averlo fatto, perché le generalizzazioni non mi piacciono. Mi auguro di non avere subito troppo l’effetto dell’echo chamber, e di non dover scoprire che in realtà sono io a circondarmi volontariamente di FDM. Diciamo che nella scrittura mi sono confrontata spesso con amiche e conoscenti per sondare il terreno, e ho appurato che si trattava di un sentimento piuttosto diffuso. Mi sono sentita meno sola, ecco, anche se ciascuno di noi mantiene la propria unicità.
Sui confini con la psicologia. Pur essendo un racconto autoironico, il tema è profondamente psicologico. Ha consultato esperti o testi specifici sulla dinamica genitore-figlio adulto durante la scrittura, o si è basata unicamente sull’osservazione e l’esperienza?
Non ho nessuna competenza psicologica, se non una breve ma utile esperienza come paziente. Ho però deciso di iscrivermi a una nuova laurea, che mi auguro possa diventare la mia terza, in psicologia della comunicazione, in Bicocca. La questione mi affascina molto, ma sono assolutamente una neofita.
Sulla reazione dei suoi genitori. Qual è stata la reazione dei suoi genitori al titolo e al contenuto del libro? Hanno riconosciuto, o frainteso, il messaggio di fondo del “Manuale”?
Sono molto riservati, quindi non credo abbiano apprezzato in modo particolare il mio slancio narrativo, anche se non me l’hanno detto in modo diretto. Mio papà mi ha detto che non avrei dovuto usare una parolaccia nel titolo. Io ho sorriso, e la questione si è chiusa così.
Sul finale del viaggio. Il traguardo del libro è la liberazione. Una volta raggiunta questa consapevolezza, come si modifica il rapporto con i genitori? Si può amare profondamente un genitore mantenendo un distacco emotivo e decisionale sano?
Non sono ancora in grado di rispondere, perché non ho ancora raggiunto quel distacco emotivo e decisionale sano cui in qualche modo anelo. Ci sono momenti in cui mi pare di esserci vicina, ma poi torno ad anni luce dal traguardo. Basta una piccola cosa, una fragilità anche momentanea, e mi ritrovo risucchiata in questo vortice di dipendenza. Di bisogno di farli stare bene, di vederli sereni. La mia serenità passa ancora dalla loro. Questo premesso, credo che si possa amare profondamente una mamma e un papà mantenendo quel giusto distacco. Conosco persone che ci sono riuscite, anche se non esiste – per fortuna – un metro per l’amore.
Sull’uso delle “amiche”. Le amiche giocano un ruolo cruciale nella creazione del “Club delle FDM.” Quanto sono importanti queste figure femminili esterne alla famiglia per convalidare i sentimenti e la legittimità della propria vita?
Tanto, perché ti aiutano a sentirti meno sbagliata e meno sola. Le amiche sono fondamentali, sempre. Magari non le vedi tutti i giorni e ti scambi con loro soltanto il “buongiornissimo” su WhatsApp, ma ci sono e sono un porto sicuro. Non credo di essere mai andata a caccia di conferme, con loro, perché credo di avere sempre mantenuto una certa lucidità nelle mie valutazioni. Però sono state preziose perché mi hanno fatto sentire meno sola.
Sul titolo alternativo. Se avesse dovuto intitolare il libro senza usare la parola “merda,” quale sarebbe stato il titolo che avrebbe catturato meglio l’essenza del suo messaggio sulla dipendenza dall’approvazione?
Non ho nemmeno un dubbio piccolino. Ingrata. Perché è il sentire che mi è passato per le mani con maggiore frequenza. Se si disattendono le aspettative di mamma e papà, che tanto hanno investito su di noi (per lo meno nel mio caso è andata così), è perché in qualche modo si è ingrati.
Sul messaggio al lettore maschio. Il libro si rivolge alle “figlie adulte.” Ritiene che l’esperienza di ricerca di approvazione e il sentirsi “Figlio di Merda” sia un fenomeno altrettanto diffuso, ma magari meno discusso, tra gli uomini?
In totale onestà conosco poco il mondo maschile, per lo meno da questo punto di vista. Non voglio cadere in un odiosissimo bias di genere, ma ho l’impressione – ripeto, l’impressione – che si tratti di un fenomeno tipicamente femminile. Si parla tanto della figura del mammone, per esempio. Ma il mammone è felice di essere mammone, secondo me, e non soffre il suo ruolo. Anzi, forse se l’è proprio scelto, quel ruolo. Ho amici uomini, ma nessuno di loro mi ha mai raccontato del suo sentirsi inadeguato, anche se questo non esclude che specchiandosi, la mattina, possano in qualche modo non sentirsi all’altezza delle aspettative dei loro genitori.




