“Se mentre sali le scale per andare nel sottotetto inizi a sentire un profumo che durante l’inverno non c’era, ecco, quello è il momento di lavorare nell’acetaia”.  Cosi dicono a Spilamberto, piccolo borgo nel modenese, dove la saggezza popolare degli abitanti protegge i segreti dell’alchimia del tempo e li traduce nell’Aceto Balsamico Tradizionale di Modena (ABTM). Il tempo. Secoli di sapienza racchiusi in gocce di colore bruno scuro, cariche e lucenti ma che si declinano in sfumature sempre diverse.  Senza ingredienti: cento per cento puro mosto. E’questa la vera chiave che rende inimitabile l’aceto di Spilamberto.

Nel borgo quasi tutti hanno la propria acetaia con dentro un tesoro che rappresenta la storia della casa: la batteria di botti tramandata dai bisnonni ai nipoti. “Fa parte della famiglia” dicono. C’è chi ne ha cinque – sei (il minimo) e chi ne ha nove – undici (il massimo), fatte di legni diversi che rilasciano diversi tannini. “In una batteria ideale – spiega il Gran Maestro Luca Gozzoli – la prima botte è di castagno o di gelso, la seconda di ciliegio, la terza di robinia, la quarta di rovere, la quinta di frassino, la sesta di rovere. Un tempo, quando in zona era fiorente la coltivazione dei bachi da seta, c’erano anche botti di gelso, oggi diventate una rarità. Anche per questo è impossibile che un aceto sia uguale a un altro”.

Per comprendere come questo sia possibile seguiamo il lunghissimo e delicato percorso che porta dall’uva fino alla mitica bottiglietta da 10 cl disegnata da Giugiaro, l’unica nella quale può essere venduto l’Aceto Balsamico Tradizionale di Modena (circa 125mila pezzi l’anno).  Mentre gli altri aceti partono dalla  fermentazione, il Tradizionale parte invece dalla raccolta della migliore una trebbiana (ma anche Lambrusco o Ancellotta), cresciuta nella terra modenese resa umida e molle dalla nebbia.  Da un quintale si possono ottenere solo due litri di Balsamico Tradizionale. Le uve vengono pigiate, alla sera, in modo tale che non si rompano gli acini (la cosiddetta pigiatura soffice) perché, spiega Gozzoli “in caso contrario rilascerebbero acidi grassi che compromettono le fasi di fermentazione successiva”.  Il succo di uva viene quindi messo in un grande paiolo di legno, dove riposa per una notte “in modo che vengano a galla le impurità restando però sempre succo d’uva, cioè senza fermentare”. La mattina successiva, viene messo nei paioli “una volta in rame, ora in acciaio” – dove cuoce a cielo aperto, senza arrivare mai ad una ebollizione violenta. Si tratta di una tradizione antichissima:  spiega Gozzoli “per millenni, prima dell’arrivo dello zucchero dalle Americhe, il succo d’uva cotto è stato usato come dolcificante o per conservare”. Al tramonto, quando circa il 30% sarà evaporato, verrà poi messo nella cosiddetta botte madre, di grandi dimensioni, dove riposerà per tutto l’inverno. 

In primavera – “quando salendo le scale per andare nell’acetaia – come dicevamo all’inizio – si cominciano a sentire i profumi che in inverno non c’erano” –  il motto costo viene ripreso e messo (rinvaso) nella prima botte della batteria di famiglia conservata nel sottotetto (non coibentato: è la parte della casa più esposta agli sbalzi termici dell’alternarsi delle stagioni).  Resta per cinque – sei anni nelle botti maggiori, fatte con legni teneri, dove avvengono la fermentazione e la biossidazione acetica. Poi riposa per altri 14 – 15 anni nel ventre buio delle  botti centrali, dove avviene la maturazione: il liquido prende il colore bruno scuro e si formano il sapore e i profumi. Infine va nelle botticelle piccole, fatte di legni duri, dove avviene l’invecchiamento. Nell’ultima, quella più piccola, avviene il miracolo del balsamico che ha ormai raccolto in sé i profumi fruttati del ciliegio, il colore del castagno e l’aroma vanigliato del rovere: è diventato armonia ed equilibrio.

Una volta all’anno avviene il prelievo dalla più piccola delle botticelle, subito rincalzata con il prodotto di quella precedente, a sua volta riportata a livello con il contenuto della vicina e via via fino all’ultima che viene rabboccata con il mosto dell’annata. Venticinque anni di cure, di passaggi e di quieta permanenza tra legni odorosi e pregiati che si riassumono in una parola: “Tradizionale”.  E’qui che bisogna puntare l’attenzione per distinguerlo dall’80% dell’aceto che si trova in commercio con l’etichetta “balsamico di Modena Igp”. La procedura è rigidamente definita nel Disciplinare della Consorteria dell’Aceto Balsamico Tradizionale di Modena, che protegge l’Aceto Balsamico Tradizionale affinato (12 anni di invecchiamento) e l’Aceto Balsamico Tradizionale stravecchio (25 anni).

“Alla base del procedimento – spiega il Gran Maestro – c’è una lettera,  conservata nel Museo dell’Aceto Balsamico di Spilamberto, inviata nel 1862 da Francesco Aggazzotti a Giorgio Gallesio. Ma, sebbene tutti i passaggi siano scientificamente spiegati – dice Gozzoli – è impossibile stabilire, dalla prima all’ultima botte,  quanto prodotto resta dei diversi passaggi e in che modo i profumi e i sapori si coniugheranno i legni e con l’ambiente esterno”. E’il mistero del Balsamico Tradizionale di Modena…    

Gli appuntamenti:

Il 20 giugno prenderà il via l’attesissima Fiera di San Giovanni Battista che, come ogni anno, proporrà un ricco programma di eventi: spettacoli, concerti, stand gastronomici, giochi per i più piccoli e tanto altro ancora.

Da non perdere, domenica 23 giugno presso la Rocca Rangoni, il Palio dell’Aceto Balsamico Tradizionaleorganizzato dall’Associazione Consorteriadi Spilamberto, durante il quale il Gran Maestro Maurizio Fini premierà i migliori Aceti Balsamici Tradizionali familiari.


In occasione della Fiera, il Museo del Balsamico Tradizionale sarà aperto gratuitamente nei seguenti giorni ed orari:

Venerdì 21 giugno dalle 15:00 alle 24:00

Sabato 22 giugno dalle 15:00 alle 24:00

Domenica 23 giugno dalle 10:30 alle 24:00

Lunedì 24 giugno dalle 15:00 alle 24:00

Per il programma completo, le news e gli aggiornamenti www.fierasangiovanni.it c

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