Un libro davvero importante nel quale Franco Ferrarotti, decano di una intera generazione di sociologici, ci fa ragionare sull’aggregazione urbana e sul fatto che gli schemi mentali evolvano più lentamente delle pratiche di vita: il costume non lo si cambia con un decreto di legge, dice Ferrarotti, “Viviamo ormai in un mondo di migranti, un mondo in movimento….”, siamo passati da uno sviluppo storico diacronico ad una fase sincronica dove tutte le culture e le lingue interagiscono in presenza, dando luogo ad una sorta di conversazione polifonica.

Ecco quindi che la città non è più quella classica, né la polis greca né la città murata, ma è una città dove il centro si contrappone duramente alla periferia. Ma cosa è la periferia? E’ una parte della società globale ma caratterizzata dall’esclusione sociale. Cosa bisogna fare quindi, ridisegnarla? No, bisogna cercare di delineare il moto evolutivo delle condizioni periferiche attraverso la ricerca longitudinale cioè la successione temporale delle tre generazioni di migranti. Attento osservatore e testimone della società, dei suoi aspetti e dei suoi cambiamenti, Ferrarotti che, come noto, è stato tra i protagonisti dell’istituzionalizzazione della sociologia in Italia negli anni Sessanta, ritrae un ritratto delle tre generazioni di migranti.

La prima generazione dei migranti era quella dei pionieri: persone forti, dinamiche, pronte a tutto pur di sfamarsi. La seconda era quella dei figli, ossessionati dalla ricerca delle radici e ambivalenti nei confronti dei padri che hanno tradito la cultura di origine ma non sono stati accettati dalla cultura del Paese di accoglienza: sono persone che studiano, hanno conseguito lauree e master, vogliono le stesse opportunità dei cittadini autoctoni, rifiutano una cittadinanza di serie B. E’ una generazione che, anche quando frequenta l’università, si sente discriminata ed è una discriminazione più sottile e insidiosa di quella dei padri perché è una discriminazione culturale. “Ed è qui – spiega il sociologo – che l’eurocentrismo fa sentire il suo peso negativo”. Per la terza generazione invece il tradimento dei padri deve essere lavato con il sangue: chi sono i responsabili delle bombe nella metropolitana di Londra? Scopriamo che sono giovani cittadini inglesi che vengono da ex colonie dei domini della corona britannica e che nutrono legittime aspettative. In Italia, scrive, sperimenteremo tutto questo fra poco, quando i nostri figli e nipoti verranno da matrimoni misti e rivendicheranno diritti che tutti noi abbiamo. E la crisi di cui tanto si parla? La crisi è una funzione epifanica, aiuta ad ottenere una visione più realistica della situazione in cui versa oggi l’umanità.

In questo senso l’eurocentrismo costituisce soprattutto un pericolo. Scrive Ferrarotti: “Il dilemma davanti al quale ci troviamo è: dialogare o perire”. La transizione epocale attuale, dallo sviluppo storico diacronico all’inedita esperienza dello sviluppo storico sincronico, secondo Ferrarotti significa che ogni gruppo umano produce cultura; ogni cultura umana ha pari dignità; la stessa identità si va trasformando, non è più una realtà fissa ma un processo dinamico e cangiante. Appare quindi chiaro come il concetto ancora prevalente di cultura eurocentrica risulta ormai inadeguato perché è un concetto esclusivo e non inclusivo. Spiega il sociologo: il concetto esclusivo di cultura come appannaggio di pochi contro molti va sostituito con il concetto di cultura come insieme di pratiche di vita, di valori condivisi, vissuti un concetto aperto, non esclusivo ma inclusivo.

E cosa ne è quindi dello Stato nazione, invenzione europea del tardo ‘700-‘800? E’certamente in crisi. La fine della guerra fredda ha potuto alimentare grandi ottimismi, tanto da poter parlare di una “fine della storia”, in nome della diffusione della democrazia liberale occidentale come regime universale, come una sorta di Pax Augustea. “Ma la storia non è giunta al suo termine e si sviluppa in modo drammatico perché insieme ai progressi ci sono anche i regressi”. Ferrarotti pone l’esempio negativo degli Stati Uniti, incapaci di comunicare con altre civiltà, se non attraverso la meccanica proiezione del loro know how tecnologico.

La comunicazione interculturale è quindi chiamata a far comprendere la nuova consapevolezza nel mondo, occorre proporsi come obiettivo il distacco dalla particolarità dell’individuo ma non dall’universalità della persona. “Servirebbe imparare a guidare senza dominare”. L’Europa è l’estrema propaggine della terra asiatica, la storia Europea non è la storia del mondo. “L’Europa Unita non mi sembra sufficientemente consapevole della sua storia e della sua originale funzione, non sembra aver capito che in fondo la sua forza è quella delle differenze… e che la polarità Cina- Occidente si profilava già nella mente di Voltaire alla voce “Gazette”, nell’Encyclopédie”.

Anna Maria De Luca

COMMENTA