Valencia ha fatto una cosa rara, quasi rivoluzionaria per i tempi che corrono: ha deciso di pensare. Di fermarsi prima che sia troppo tardi e chiedersi non quanti turisti può accogliere, ma quali turisti vuole accogliere. E soprattutto: a che prezzo.

Il Piano Strategico del Turismo 2025-2028 che la città ha appena presentato non è l’ennesimo documento di marketing mascherato da strategia. È un tentativo – ambizioso, forse ingenuo, vedremo – di riportare il turismo dentro i confini della ragione. Di trasformarlo da invasione a dialogo.

Perché Valencia ha tutto quello che serve per cadere nella trappola: 329 giorni di sole all’anno, 22 chilometri di spiagge, quattro siti patrimonio dell’umanità, una gastronomia benedetta dall’UNESCO. Oltre duemila anni di storia che si intrecciano con 37 musei, 22 teatri, 2.501 ristoranti. Più di 20.000 posti letto pronti ad accogliere l’orda. Potrebbe, in altre parole, fare come Barcellona, come Venezia, come tutte quelle città che hanno scoperto troppo tardi che il turismo è come il vino: nelle giuste dosi è una benedizione, ma l’eccesso avvelena.

E invece Valencia ha scelto la via più difficile. Ha coinvolto cittadini, imprese, istituzioni in un processo partecipativo – termine abusato, lo so, ma qui sembra avere un senso. Hanno identificato insieme 22 sfide, 50 azioni concrete, 5 grandi assi di trasformazione. Non dall’alto verso il basso, ma orizzontalmente, nel dialogo faticoso che è l’unico modo vero di costruire qualcosa che duri.

© Visita Valencia

L’obiettivo dichiarato è semplice da enunciare, difficilissimo da realizzare: preservare lo stile di vita dei residenti. Perché è questo il punto, no? Una città non è un parco a tema. Non è un set cinematografico dove i turisti recitano la parte dei visitatori e i residenti quella delle comparse. Una città è viva quando chi ci vive può ancora riconoscersi nelle sue strade, nei suoi ritmi, nei suoi prezzi.

I cinque assi del piano hanno nomi che potrebbero essere vuoti contenitori burocratici, ma se li guardi da vicino raccontano una storia diversa. La sostenibilità non è solo una parola à la page: significa ridurre l’uso delle risorse, migliorare l’accessibilità, rendere persino le crociere – quelle cattedrali galleggianti dell’eccesso – meno distruttive. La governance è coordinamento vero, non riunioni inutili. La proposta di valore punta su ciò che Valencia è davvero: gastronomia, cultura, sport, apprendimento.

E poi c’è l’innovazione digitale, certo, perché siamo nel 2025 e non puoi ignorarla. Ma la vera novità sta nell’ultimo asse: l’integrazione. Redistribuire i benefici del turismo nei quartieri periferici, quelli che nessuno fotografa per Instagram. Portare il valore dove non arriva naturalmente. È un’idea antica quanto il socialismo e moderna quanto l’urbanistica contemporanea: che una città debba essere giusta prima ancora che bella.

Leggendo questo piano mi è tornato in mente qualcosa che vidi anni fa a Kyoto. Il tempio Ryōan-ji limitava gli ingressi per preservare il silenzio del suo giardino zen. Meno visitatori, certo. Meno soldi, probabilmente. Ma il giardino restava se stesso. E chi lo visitava portava via qualcosa di vero, non la fotografia frettolosa di un posto sovraffollato.

Valencia sta tentando qualcosa di simile. Non chiude le porte, non alza muri, ma cerca di scegliere. Di attirare visitatori “in linea con i valori della città” – formula elegante per dire: non tutti i soldi valgono allo stesso modo. Alcuni costano troppo.

Certo, è facile scrivere piani. È facile annunciare cambi di paradigma. La verità si vedrà tra tre anni, quando dovremo chiederci se Valencia è riuscita davvero a crescere senza divorarsi, ad aprirsi senza svendersi, ad accogliere senza perdere l’anima.

Ma intanto ha fatto una cosa importante: ha posto la domanda giusta. Non “quanto possiamo guadagnare dal turismo?” ma “quanto turismo possiamo permetterci senza smettere di essere noi stessi?”

È una domanda che molte città dovrebbero farsi. Meglio ora, finché sono ancora in tempo per dare una risposta.

Perché dopo, come insegna la storia, resta solo il rimpianto. E le strade vuote di abitanti, piene soltanto di chi passa.

COMMENTA